domenica 28 febbraio 2010

Invictus


Quando Clint si mette dietro alla macchina da presa, lo spettatore anche se non sa chi dirige il film, lo sente. Ed ecco che nei momenti in cui Morgan Freeman, nei panni di Mandela, è inquadrato in penombra nella solitudine della sua stanza e partono le note lente e compassate di un pianoforte, tanto simili a quelle di Million Dollar Baby o dei I ponti di Madison County, noi avvertiamo la presenza del regista "invisibile". Di quell'uomo che ha imparato a fare cinema rinunciando al se stesso registico, per dedicarsi alle storie che racconta. Di quell'uomo che si è messo in discussione fino ad assumere un'identità al passo con i tempi (Gran torino). Di quell'uomo che all'età di ottanta anni riesce ad essere moderno nei concetti e nell'espressione dell'America di oggi.
Invictus è prima di tutto un film sullo sport, e i detrattori che lo accusano di essere "retorico" forse non sanno che lo sport
è retorica, forse non sanno che i principi che stanno alla base della competitività, della dedizione sportiva e della nazionalità sportiva, si basano su concetti assolutamente retorici. Basta pensare a tutte le volte che parte l'inno nazionale alle premiazioni.
Invictus è un film lucido, solido, di ampio respiro, sicuro, che si muove con passi certi e saldi raccontando una storia che non riserva sorprese, perchè la conosciamo tutti. Sappiamo benissimo tutti come finirà il match che porterà i South Africa Springboks alla vittoria, eppure mentre assistiamo a quella che io considero la scena di sport di squadra più bella della storia del cinema (e lì non c'è retorica, ma solo sangue e sudore), la tensione ci accompagna e non ci lascia mai. Fino alla fine, dove riusciamo pure ad emozionarci.
Ma il film riserva le sue pecche più evidenti nel suo essere troppo dedito alle richieste. Freeman da tempo amico di Clint, ha sempre voluto fare un film su Mandela. Eastwood l'ha finalmente accontentato, e se da una parte ci ha deliziato con la sua regia sempre perfetta e la sua passione, dall'altra purtroppo il film riserva limiti dovuti alle esigenze di soddisfare le richieste dell'amico Freeman.
Eastwood è presente quando introduce ancora una volta il suo tema del "padre putativo" (Mandela padre di tutti i suoi connazionali, ma padre biologico insoddisfatto) o le sue idee antirazziste e di speranza verso una società multiraziale (le stesse di Gran Torino), però è assente quando calca troppo la mano su di un finale che punta più al sensazionalismo che all'intimo. Salvo poi far pronunciare al suo Mandela "I'm the captain of my soul" restituendoci il maltolto.
In definitiva, un film con qualche pecca, ma che io perdono volentieri. Sono errori che al regista del mio cuore, al captain of my soul che tanto mi ha dato in questi anni in termini di emozioni (comunico che sono riuscita a piangere anche con Invictus), che tanto mi ha insegnato, io perdono ancora prima che li commetta.

1 commento:

  1. Uno dei più grandi registi viventi. Concordo, la scena sportiva della finale è bellissima.

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